#38 pt. 2 - Cosa ci spinge ad aiutare gli altri?
n.15 "Conversation": torno a parlare di "aiuto" con Chiara D'Andrea.
Ciao,
⚒️ mentre scrivo questo numero di People, like me sono di nuovo a casa. Due operai stanno lavorando per riparare alcune lesioni che sono emerse dopo la scossa di bradisismo del 13 marzo nei Campi Flegrei (te ne avevo parlato nella newsletter precedente).
🏚️ Mi chiedo se riparare le cose che si rompono serva davvero a qualcosa. Non ho una risposta definitiva. Puoi aggiustare una crepa, ma nessuno ti garantisce che non se ne apra un’altra, da un’altra parte.
🧶 Però in questi due mesi una cosa l’ho capita. Se non intervieni, la ferita si allarga, si sfilaccia come una maglia che perde il filo, e a quel punto è molto più difficile tenerla insieme. Forse riparare serve a questo: non tanto a mettere in sicurezza tutto, ma a sentirti ancora parte attiva di quello che cerchi di ricucire.
Oggi, comunque, è un numero insolito di questa newsletter. Andiamo!
Questo numero è diverso. È la seconda parte di una domanda che avevamo già fatto 21 giorni fa: Cosa ci spinge ad aiutare gli altri?
Stessa domanda, ma guardata da un’altra angolazione. Un’altra persona. Un’altra storia.Se la scorsa volta ne avevo parlato con Martina, psicologa di prossimità nel Rione Sanità, oggi lo faccio con Chiara, assistente sociale che da anni si muove tra Napoli e Castel Volturno, lavorando con chi cresce nelle crepe della società.
Non è un caso se torno sulla stessa domanda. Perché la realtà non si lascia chiudere in una sola storia, in una sola versione. Vederla da più angolazioni è l’unico modo per capirla un po’ di più. È anche, in piccolo, un lavoro di ricerca: ascoltare attivamente, cogliere i punti di contatto, le differenze, senza forzare risposte. Stesso tema, due voci diverse.Eppure cambia tutto: cambiano le parole, cambiano le fatiche, cambiano i perché. Perché aiutare non è solo una parola buona. È stanchezza. È frustrazione. È il senso di fare tutto il possibile… e vederlo svanire.
E intanto qualcosa si consuma: il tempo, l’energia, la tenuta emotiva.
Perché quando ti prendi cura degli altri, rischi di dimenticare di prenderti cura di te. E allora viene da chiederselo davvero: perché continuo a farlo? Cosa mi muove? A che prezzo?In questa chiacchierata con Chiara proviamo a stare proprio lì, in quel punto fragile dove l’aiuto incontra il limite. Dove il gesto si scontra con la realtà. Dove l’altruismo non basta.
Ripartiamo da qui: Cosa ci muove quando aiutiamo?
Questa newsletter arriva a 186 persone, +16 rispetto all’ultimo numero. Suggeriscila a un/a amico/a per far crescere il progetto.
La 15esima ospite è Chiara D’Andrea: un camaleonte curioso, sempre pronto a cambiare pelle senza mai tradire il cuore.
Chiara è forte. Straripante di energia, anche quando non sa dove metterla, e sono convinto che questa forza arrivi anche a chi non la conosce. È una di quelle persone che aprono il cuore al bello e alla meraviglia, anche quando il bello non si vede. Anche quando la meraviglia - apparentemente - non c’è.
Lavora come assistente sociale per l’Associazione Pianoterra, tra Napoli e Castel Volturno. Un pezzo di mondo dove le crepe sono più larghe e la fatica pesa il doppio.
Quando le ho riletto la sua presentazione, si è commossa. Si definisce un camaleonte dubbioso: perché si adatta a chi ha davanti e perché prova a credere che dietro ogni scelta, anche quella più sbagliata, ci sia una storia che merita di essere ascoltata.
E forse questa sua capacità di perdersi negli altri ha radici antiche. Chiara è sempre stata attratta dalle persone che avevano caratteristiche diverse dalle sue. Mi ha detto una cosa che mi è rimasta impressa:
«Quando le persone ti raccontano la propria vita, tu hai la possibilità di vivere altre vite.»
Durante la nostra chiacchierata, ho capito una cosa: l’energia vitale che la attraversa non è un orpello, non è un di più. È qualcosa che deve trovare una via d’uscita, altrimenti implode. Chiara non sa restare ferma davanti a un’ingiustizia o a un bisogno. Non può. È quel movimento che l’ha spinta verso il lavoro che fa oggi.
Ma anche lei, a volte, si chiede se ne valga davvero la pena. Se abbia senso investire tanta fatica, tanta testa, tanto cuore… per salvare una sola persona. Per aiutare una sola famiglia. E ogni volta si dà la stessa risposta: sì. Perché, dice:
«Riuscire a far funzionare qualcosa che non stava funzionando mi regala un forte entusiasmo e senso di gioia».
Non gliel’ho detto in quel momento, ma mi è tornato in mente il significato originario della parola "entusiasmo". Viene dal greco: "εν" (en) significa "dentro", "θεός" (theós) significa "dio". Essere entusiasti voleva dire questo: avere il dio dentro. Essere attraversati da una forza che non controlli, ma che ti spinge a esserci. Anche quando sarebbe più facile mollare.
Guarda la chiacchierata con Chiara:
Chiara ha passato l’infanzia e l’adolescenza con addosso un senso ingombrante di esclusione. Non vista. Non compresa. Crescendo, racconta di essere stata in sovrappeso, e che proprio questo è stato il bersaglio facile per chi voleva ferire.
«Sentirmi non compresa e non vista è quello che mi ha insegnato a guardare gli altri come persone.»
Esperienze che l’hanno scavata. E che, più tardi, quando si è trovata ad aiutare gli altri, sono diventate la chiave per immedesimarsi. Per provare a capire, davvero.
Da questa chiacchierata con Chiara, mi porto via 4 cose:
1. Aiutare anche per salvarsi.
Chiara lo dice: tutto questo aiutare gli altri, tutta questa energia altruistica che muove la sua vita, in fondo risponde anche a un bisogno personale. Fare qualcosa di buono le restituisce qualcosa. Le dà soddisfazione. Le fa sentire di avere un valore, di pensarsi una brava persona. E forse è proprio questo il punto: non esiste un desiderio di aiuto che sia completamente puro. C'è sempre, da qualche parte, un bisogno di sentirsi riconosciuti, sentirsi speciali. E va bene così. Accettarlo non toglie valore all'aiuto.
2. La leggerezza di non essere indispensabili.
Il senso di fatica non è un incidente di percorso. È la regola. Chiara racconta che ci sono giorni in cui tutto quello che puoi fare è buttare fuori la frustrazione, elencare i problemi, lamentarti. Con il tempo, lei ha imparato a farlo senza restarci incastrata. Ripensa, elabora, si arrabbia. Poi lascia andare. Man mano che ti abitui, il tempo tra il dolore e il lasciare andare, si accorcerà. Il vero passaggio di crescita, dice, è stato capire una cosa semplice e tremenda: sei solo un micro-tassello in un ingranaggio enorme. Capirlo e accettarlo non è un passaggio indolore anzi, ma:
«Che bello pensare che senza di te, il mondo va avanti.»
Come per Martina, anche per Chiara accettare la propria non-centralità è stato un punto di svolta.
3. Le ferite che ritornano.
C’è un altro rischio, più sottile. Quando ti occupi degli altri, capita che nella storia di chi hai davanti rivedi un pezzo della tua. Una ferita ancora aperta. Un vuoto che ti porti dietro. Chiara racconta che spesso chi lavora nell’aiuto sta cercando, senza saperlo, di riparare il proprio trauma attraverso le vite degli altri. E quando succede, è facile confondere il bisogno dell’altro con il nostro.
«È come cercare di riparare il tuo trauma attraverso le vite degli altri.»
E spesso nemmeno te ne accorgi. Ma ogni volta che ti senti troppo coinvolta/o, ogni volta che quella storia ti brucia dentro come fosse tua, forse ti stanno riconsegnando qualcosa che avevi perso. O che ti era stato strappato.
4. Fidarsi del seme che non vedi.
C'è un errore sottile, ma enorme, in chi aiuta: pensare di sapere cosa è giusto per l’altro. Guardare qualcuno che sbaglia, e pensare: "Io so cosa dovrebbe fare" oppure "Io so qual è la strada giusta." E allora giudichi. Ti arrabbi. Ti chiedi: "Perché non fa la scelta giusta?" "Perché non cambia?". Ma aiutare non è correggere, non è sostituirsi. Non è imporre la propria visione. Chiara dice una cosa semplice e gigantesca: bisogna avere fiducia che nell’altro ci sia del bello. Anche quando non lo vedi subito. E allora viene una domanda più grande: cosa può fare davvero una comunità per le persone che la compongono? La risposta che ci siamo dati è semplice:
Una comunità non deve decidere al posto tuo ma deve aiutarti a fare scelte buone.
Grazie a “People, like me” ho aperto un canale YouTube e Spotify:
🔍 RISORSE
Ecco le risorse proposte per te da Chiara:
Human - il film: L’ho scelto perché racconta storie di vita senza filtri. Ti fa viaggiare solo ascoltando. Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia che non vedi. Sii gentile. Sempre.
This is Us - serie tv: Una storia di famiglia, densa e commovente. Ti aiuta a capire chi siamo, partendo da chi siamo stati.
Vento Scomposto - libro: Non tutto è come sembra. A volte giudichiamo troppo in fretta. Fermarsi, farsi domande: sarebbe già tanto.
L'estate in cui imparammo a volare - serie tv: Ti mostra quanto la vita possa essere complessa, tragica, imprevedibile. E quanto, dentro tutto questo, l’amore resti indispensabile.
Sud: questo brano è un invito a ri-umanizzarci.
Il codice dell’anima - libro: parla della teoria della ghianda. Parla della teoria della ghianda: ognuno nasce con un daimon, un’intuizione profonda su chi è davvero. La tua ghianda sa dove andare. Anche quando tu non lo sai.
Ed ecco le mie risorse:
Camping Monti del Sole: Un campeggio dove sono stato qualche giorno a Pasqua. Il posto, l’atmosfera, gli alberi, l’ospitalità: tutto mi ha rigenerato. Uno di quei posti dove senti che potresti tornarci sempre.
Creatività Superiore - libro: L’ho finito da poco. Mi ha ricordato quanto, anche nella creatività, restiamo intrappolati nei soliti schemi mentali. E dimentichiamo l’intuizione — che spesso è più saggia della mente. Questo libro mi ha aiutato a rimettere l’intuito al centro. E a dargli più fiducia.
👉 Uno sguardo a come potremmo cambiare, da qui al 2035.
Ci vediamo il 28 maggio. Grazie di esserci!